31 Maggio 2011 6 commenti

The booth di Andrea Palla

Cosa sareste disposti a fare pur di raggiungere i vostri scopi?

Copertina, On Air

Da qualche tempo si vocifera qua e là che una cosina chiamata Internet abbia in qualche modo rivoluzionato il mondo. Per esempio pare che non occorra più comprare libri di ricette per scoprire come cucinare una succulenta peperonata, e che addirittura bastino pochi click per organizzare e prenotare un viaggio esotico in quel di Canicattì. In tutto questo marasma di autentiche meraviglie, si dice anche che Internet rappresenti un nuovo e chiccosissimo media per sperimentare nuove forme di comunicazione, anche applicate al mondo del telefilm che per l’appunto è quello che ci sta più a cuore.

Queste poche righe di introduzione mi serviranno non solo per ridurre il più possibile quelle successive e confezionare comunque un articolo apparentemente corposo (cosa che fa guadagnare più punti sociali di possedere trentacinque tessere dei più svariati supermercati), ma anche per meglio inquadrare la serie di cui sto per parlarvi, ovvero The Booth.
Innazitutto una piccola lezioncina di inglese, tanto per farvi sapere che siamo very internescionàl da queste parti: nel gergo comune, un “booth” rappresenta quel caratteristico tavolo da diner americano, normalmente circondato da divanetti che lo separano dall’ambiente circostante. Il titolo non è affatto casuale, perchè è infatti in uno di questi luoghi che si svolge interamente l’azione – o dovremmo dire, il dialogo – di questa serie web lanciata qualche mese fa sul sito del canale satellitare FX e ideata da Chris Kubasik, che nel suo curriculum già vanta, tra le cose più importanti, la scrittura di ben un episodio uno di ER.

La serie è un thriller, che si dipana lungo cinque episodi da 20 minuti ciascuno ed è totalmente incentrata sulla figura di un uomo misterioso (denominato, pensate un po’, “uomo misterioso”), che comodamente seduto ad uno di questi tavoloni incontra e parla con una serie di personaggi, accomunati da un chiaro desiderio di rivalsa e dalla necessità di ottenere qualcosa di importante per la propria vita. Il nostro uomo misterioso, con modalità del tutto particolari e senza svelarci come o perché, propone ai suoi interlocutori dei patti fantasiosi, promettendo che le loro richieste saranno esaudite se in cambio metteranno in atto una serie di azioni, scritte su un’agenda (pure essa misteriosa) che l’uomo porta sempre con sè.

L’idea di base, tanto semplice quanto assurda, aprirebbe grandissimi scenari psicologici se affidata alle mani esperte di autori che masticano suspense dalla mattina alla sera. Ma senza scomodare il fantasma di Alfred Hitchcock, sarebbe bastato un pizzico di sviluppo in più per trasformare questo prodotto medio in qualcosa di succoso e intrigante. The booth parte da un concetto potente: cosa sei disposto a fare pur di ottenere quello che vuoi? E soprattutto, fin dove ti spingeresti basandoti solo sul tuo istinto e inseguendo una promessa inverosimile ma stimolante? Se il meccanismo del non detto funziona nelle primissime puntate, ben diverso è reggere alla lunga distanza senza introdurre sviluppi alternativi. Il risultato è che alla fine dei cinque episodi non si viene a capo di nulla, si osservano semmai divertiti gli intrecci narrativi che collegano i personaggi (perchè avete indovinato: ci sono intrecci narrativi che collegano i personaggi – stupitevene!), ma l’acquolina in bocca per il mistero che circonda il tutto cessa di farsi sentire fin dopo i primi 40 minuti.

Non so se avete presente quelle serie che odorano di presa per il culo lontano un miglio. Ecco, The booth è una di queste, con la sua partenza a bomba che promette più di una campagna elettorale della Moratti, e poi si affloscia più di un soufflè in un forno in cui è entrata aria fredda.

Il protagonista principale Xander Berkeley è di quelli tosti, visti in centinaia di telefilm tra cui Nikita e 24. Ma non basta la sua faccia, tra il rassicurante e l’inquietante, a salvare la baracca di un prodotto zeppo di errori. La sensazione finale è quella di qualcosa di sperimentale, ma privo di una produzione solida.

Val la pena recuperarlo? Beh, probabilmente più per l’idea che per il risultato, perchè rappresenta comunque un concept carino che altri network potrebbero inseguire. E poi suvvia, in tutto sono meno di due ore, è persino più sopportabile di un film di Muccino.

In più trovarlo in streaming è facile e legale: sta qui, nella pagina dedicata. E tanto per stare in tema, vi prometto che se lo guarderete vincerete alla lotteria e vostra suocera smetterà di scassarvi le balle istantaneamente. Non vi pare meraviglioso accettare uno scambio di questo tipo?



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